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Una prima insolita, in notturna

 

Volevamo concludere in bellezza una stagione alpinisticamente molto attiva: Rimpfishhorn, Strahlhorn, Via Dufour al Monte Rosa, diverse arrampicate nei gruppi del Pelmo, Bosconero, Spiz di Mezzodì nelle Dolomiti zoldane ed ancora al Gran Sasso, al Costone di Pezza, la Montagna Spaccata di Gaeta, Leano e tanta palestra. Una stagione che meritava una degna conclusione, avevamo studiato la possibilità di una via nuova al Costone, sul pilastro centrale, poi con i primi freddi ogni velleità andò spegnendosi pian piano, già si pensava alle prime nevi, agli sci, alle gare di fondo, di discesa. La conclusione eccezionale venne senza particolare programmazione.

 

Un sabato sera decidiamo di andare a vedere la parete nord del Sirente, la guida da’ una via che sembra abbastanza interessante: direttissima alla quota 2200 Cavallini Vecchietti. Raggiungiamo i Piani del Sirente in macchina e presto siamo nel fitto bosco che copre le pendici del monte.

 

Quando finalmente ne usciamo, dopo una buona ora, ci troviamo davanti una parete frastagliata, solcata da numerosi canaloni. Con un po’ di difficoltà riusciamo a trovare il camino dove sale la via che ci da’ subito il benvenuto scaricando un pietrone a pochi passi da noi. Attacchiamo il caminaccio strapiombante. L’uscita è strettissima e bisogna abbandonare ogni raffinatezza stilistica (e diversi bottoni) per riuscire a raggiungere il terrazzino sovrastante. Di qui la via prosegue lungo il fondo del canalone, su varie placche levigatissime e molto inclinate dove risulta difficilissimo trovare appigli per le mani o buone fessure per un chiodo. Il canalone si biforca. Proseguiamo sulla sinistra fino ad un evidente punto di sosta dove troviamo un vecchio chiodo in una fessura spaccata dal tempo. Sarà l’unico segno di una precedente salita che troveremo. Di qui per un altro salto ben levigato si raggiunge un meraviglioso arco naturale di roccia alto una trentina di metri, tutt’intorno un ambiente sorprendente, guglie, pareti strapiombanti, veramente inconsueto per un paesaggio appenninico.

 

Finora una bella ascensione di IV grado, Proseguiamo a sinistra per raggiungere facilmente una sella, ottimo punto di osservazione per studiare la via di salita. Solo ora ci accorgiamo che il sole se n’è andato da tempo, comincia a imbrunire e la quota 2200 della guida, da quanto riusciamo a vedere è ancora lontana, siamo forse a metà via. Decidiamo di scendere per due ragioni, primo non conosciamo la via, secondo dal punto dove ci troviamo non riusciamo a individuarla. La parete si allarga in cento piccoli canaloni, spigoli e paretine, troppe possibili soluzioni per proseguire avanti. Ripercorrere la via di salita ci sembra troppo difficoltoso per tutte quelle placche levigate. Sulla sinistra un facile canalone c’invita a tentare una nuova via di discesa.

 

Dopo circa 200-300 metri ci troviamo davanti un primo strapiombo. E’ già buio. Decidiamo per una corda doppia ed in breve siamo circa 25 metri più in basso. Dopo una ventina di metri un secondo strapiombo troppo alto per la nostra corda, ci preclude definitivamente la discesa. Siamo in un bel guaio, in basso una parete di 60-70 metri, sopra le nostre teste quei 25 metri di parete appena superati con una facile corda doppia. E’ definitivamente notte. Strano, ma pensiamo alle nostre madri. Ci prepariamo a bivaccare, giacca a vento, cappuccio di lana e via a cantare, tutto il repertorio del coro. La luna non si vede. Un’ennesima aggravante, nella nostra perenne disorganizzazione logistica dimentichiamo spesso acqua e viveri.

 

Mangiamo l’unica mela rimasta. Siamo quasi a digiuno, assetati. Comincia a far freddo e cerchiamo di muoverci come possibile, poi solo per scaldarci andiamo a mettere le mani su quella paretina di 25 metri che ci chiude la via di salita. Un primo appiglio, sulla destra la possibilità di spaccare, quindi con maggiore sicurezza qualche passo verso l’alto, un primo chiodo, ancora un’altro ed un altro ancora, forse è possibile, arrampicata cieca!!!

 

Non ci sembra vero ma siamo fuori, abbiamo lasciato almeno 5 chiodi sotto di noi. Siamo molto soddisfatti, ma raggiunta la selletta da dove avevamo cominciato la discesa, ci rendiamo conto che il problema si è spostato più in alto ma rimane lo stesso. Escludiamo la discesa e prendiamo l’unica soluzione possibile, direi anche la meno rischiosa, cominciamo a salire con la massima precauzione, cercando nel buio una via di salita. Una relazione sulle 3 o 4 ore di arrampicata che seguono è impossibile, siamo saliti per dove si passava, spigoli, diedri, paretine, qualche chiodo, cercando sempre di seguire le cenge verso destra, per uscire a quote più basse. Più volte trovata una chiazza erbosa, o una comoda roccia abbiamo dovuto reagire ad un pericoloso sopore. Poi quasi improvvisamente, usciamo in cresta, un fresco venticello ci ridà forza, siamo sotto l’anticima del Sirente. Un’ultima decisione se scendere a Rovere o Ovindoli, ma Ovindoli è laggiù con le sue luci e le sue case, la strada è nota, non abbiamo indugi. Scendiamo cantando verso Val D’Arano dove troveremo finalmente, da un tubo bucato dell’acquedotto, ristoro per la nostra gola arsa. Ad Ovindoli riusciamo finalmente a vedere l’ora, sono le 3 e mezza. Andiamo a svegliare la signora Renata, e chiediamo alloggio e qualcosa da mettere sotto i denti. Più che alle parole la brava ospite crede alle nostre facce. Vino, salame, pane, formaggio ed un indimenticabile …letto.

 

Morale: non sottovalutare le pareti nord del Sirente.

 

Vittorio Kulczicki (SUCAI Roma)

Roberto Franceschetti (CAI Valzoldana)

pubblicato sull'Appennino - luglio/agosto 1970

 

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