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Frenesia nordica

 

Per chi percorre d’inverno la strada provinciale dell’Altopiano delle Rocche, risalendo dalla Valle Subequana nell’ora che precede l’alba, il paesaggio è qualcosa di indistinto, le ombre non sono tali e la luce è ancora da venire. Ad un’ennesima curva della strada, tra le quinte della faggeta, una visione inaspettata si offre allo sguardo: la parete Nord del monte Sirente, scenario imponente che troneggia al di sopra di ampi dossi boscosi. Una bastionata cupa e severa che, in un paesaggio circostante di pianori sgombri di vegetazione e dolci declivi, disorienta e impone il naso all’insù.

Questa è l’immagine intensa e fantastica, che per dieci lunghi anni ha accompagnato i miei vagabondaggi e generato la smania di salire questa montagna: una febbre misteriosa che ancora  brucia dentro e si rinnova immutabile dopo ogni ascensione. Tentativi e progetti, sconfitte o vittorie, sono semplicemente  momenti vissuti di grande emozione che, inverno dopo inverno, hanno alimentato quella sensazione forte di liberazione assaporata per la prima volta un mattino ormai lontano.

 

All'inizio fu subito inverno

Nell’inverno del 1984, un blitz solitario sulla vetta massima della montagna, segna l’inizio di questa lunga storia; un amore smisurato per questo angolo d’Appennino nel quale, l’attività svolta nel corso degli anni, costituirà una parte non trascurabile del mio umile bagaglio alpinistico e darà luogo ad una ricerca, apparentemente senza fine, dedicata all’esplorazione e allo studio degli aspetti peculiari di una parete, che è allo stesso tempo simbolo ed essenza di questa montagna.

Con una voglia matta di “azione”  e la mente persa a rimuginare i resoconti a tinte forti dei classici della letteratura di montagna, mi apprestavo a vivere nel mio piccolo, quella “lotta con l’Alpe” che tanto mi affascinava e che in poco tempo avrebbe assorbito tutta la mia attenzione, nella realtà e nei vagheggiamenti interiori, tanto da escluderne qualsiasi forma di interferenza. Il mio Himalaya  era qui, a due passi, in Appennino!

 

Quella prima solitaria d’inverno -una corsa affannosa sorretta più da un’incrollabile volontà di “riuscire” che da un bagaglio tecnico adeguato-, ha segnato nel tempo l’inizio di una lunga serie di esperienze solitarie che, lungi dall’essere performance alpinistiche di rilievo, hanno comunque dischiuso una dimensione personale di dialogo con la montagna. Ma nulla avrebbe lasciato supporre una dedizione smisurata a venire, per questo angolo fantastico che in inverno si trasforma in un ambiente severo e in uno scenario di rara bellezza. Eppure in quel mattino, ancora vivido nei ricordi, il quadro era perfetto: il cielo blu intenso, la neve scintillava in ricami preziosi sugli speroni rocciosi, il silenzio assoluto sottolineava in maniera ossessiva il senso di solitudine della montagna deserta. Solo un pulsare incessante nella testa sembrava riempire uno spazio interiore, altrimenti svuotato da qualsiasi pensiero; una quiete travolgente e un senso di euforia, assolutamente indifferenti allo scorrere del tempo. Solo a tratti un palpitare affannoso lasciava trasparire lo sforzo dell’azione; un procedere impaziente, teso a raggiungere una cresta luminosa, meta e premio allo stesso tempo, di un inspiegabile e intenso desiderio di salire.

 

I momenti di quella salita sono quelli indelebili di ogni primo amore. Una marcia affannosa nella neve alta del bosco, la perdita del tracciato normale di salita e la decisione a tirare comunque su, dritti, verso quelle nervature rocciose parzialmente assolate che si intravedono a tratti tra le chiome fitte del bosco; ma soprattutto, quell’emozione, quella sensazione di libertà assoluta, nel calcare quelle bianche distese vergini, forse mai percorse d’inverno. Come la tela bianca di un pittore, la montagna è in attesa, pronta ad accogliere il parto delle nostre visioni. Un arabesco minuscolo ma netto, disegna una traccia sulla neve che chissà, presto svanirà, cancellata da una soffice nevicata o spazzata via con violenza da un vento urlante, o comunque, sperduta e silenziosa, scomparirà in primavera per far posto ai colori.

 

Una sensazione di ebbrezza che non mi abbandonerà mai, quella di ramponare per tortuosi canalini, che in alto si perdevano nel cuore della montagna. Un senso di esaltazione, man mano che guadagnavo terreno, si accompagnava al  timore per l’ignoto che si nascondeva più avanti dietro le pieghe della roccia. Le crestine nevose illuminate dal sole, gli anfiteatri appartati e silenziosi, lo scenario che  si allargava pian piano alla vista, erano motivi sensuali di abbandono e contemplazione, tra i barbagli del sole che faceva capolino in alto sulla montagna, troppo in alto e troppo lontano per scaldare questo universo di cristalli esiliato in un versante a  nord. Il senso di reverente umiltà con cui mi apprestavo a toccare il metallo del castelletto sulla vetta, avrebbe accompagnato la conclusione delle mie ascensioni a venire; una sorta di slancio mistico che esprime un muto desiderio di ringraziamento verso quella grandiosità nell’animo che si prova dall’alto di una montagna. Dovranno passare alcuni anni ancora, pregni di sogni e di incessante attività, prima di  far ritorno in quello stesso luogo, più ferrato e più motivato che mai.

 

Dopo quel primo timido approccio, le salite si sono avvicendate con un ritmo sempre più incalzante, al punto da regolare inconsapevolmente il trascorrere del tempo nel susseguirsi delle stagioni invernali e ritrovarmi stregato da questo versante e dalla sua parete Nord. Salire il Sirente, specie in inverno, non può prescindere da una profonda conoscenza della montagna stessa; una lunga dorsale che se vista dalla bassa Valle del’Aterno, appare come un vero e proprio muro che si erge al di sopra di  pascoli assolati e folte faggete, con uno sviluppo di ben oltre dieci chilometri. L’orografia tormentata ha dato a questo versante una struttura labirintica, dove solo una meticolosa e puntuale esplorazione permette di acquisire quei dati complessivi, essenziali all’attività alpinistica. Montagna difficile dunque, che abbisogna di  costante applicazione e ancor più grande passione;  una sorta di lungo corteggiamento insomma, il solo in grado di dare i frutti e le giuste soddisfazioni.

 

Che stessi ad un certo punto portando avanti una vera e propria esplorazione, me ne resi conto solo più tardi, quando l’elenco delle salite cominciò ad allungarsi, ma soprattutto quando i dati raccolti sull’orografia della zona, sulla rete sentieristica nella faggeta, sulla toponomastica e in generale sulle caratteristiche ambientali, cominciò ad essere notevole. A completare il quadro, una consistente documentazione fotografica, frutto di un  paziente e minuzioso lavoro di ricerca portato avanti in tutte le stagioni dell’anno, ha colmato le lacune di tipo logistico, mettendo in evidenza le caratteristiche orografiche dei settori della montagna meno accessibili e mostrandone allo stesso tempo le enormi potenzialità alpinistiche. A dare un forte impulso e un prezioso apporto a questa personale ricerca, ha contribuito non poco la conoscenza di Vincenzo Abbate, alpinista e attento ricercatore di quel fenomeno, così sfuggente ad ogni catalogazione, rappresentato dall’attività alpinistica sui monti dell’Appennino Centrale. Anni e anni di intenso contatto epistolare, hanno dato a me l’opportunità di acquisire  una serie di cognizioni storiche, inerenti le salite effettuate nel gruppo del Velino-Sirente, pressoché sconosciute ai più. Con le informazioni disponibili e centellinate al punto giusto, si è aperto un orizzonte  che semplicemente ignoravo, considerato il silenzio e l’isolamento in cui il Sirente è immerso per gran parte dell’anno.

 

Il cuore della montagna

In una fredda e tersa giornata invernale, le ombre lunghe sembrano inseguire i nostri passi, nella fretta di un’ultima doppia che ci deposita ai piedi della parete. Un vano tentativo per trovare il leggendario “passaggio per l’Arco”, ci lascia “spompati” e accaldati, tra la neve che già luccica e scricchiola nell’ultimo chiarore del giorno. Nell’urgenza di raccogliere l’attrezzatura, i fasci delle frontali saettano nelle tenebre ai margini del bosco e  solo la condensa dell’alito nell’aria pungente, ci avverte che la temperatura, ora, è scesa repentinamente. Sono le 4.30 pomeridiane e la Fossa del Saraceno si rivela ben all’altezza della sua fama: un’autentico frigorifero. L’ultimo sguardo alle nostre spalle ci regala un’immagine rara e affascinante. Nella luce scialba che si diffonde, sotto un cielo punteggiato da una miriade di stelle, l’alta parete nascosta nelle ombre dense, sembra ora  più imponente e inespugnabile; solo i nastri argentei del ghiaccio sembrano interrompere la compattezza assoluta dei salti rocciosi. Qui, in questo stretto corridoio, tra gli appicchi rocciosi e il limitare del bosco, ci fermiamo rapiti ad ascoltare per un attimo il pulsare eterno e distaccato della montagna; possiamo sentirne l’alito gelido sul nostro viso. Ad oriente, oltre le chiome scure del bosco, sta sorgendo anzitempo la luna.

 

Un trittico di solitarie

Affrontare una parete a volte è non solo il superamento dell’ostacolo oggettivo che si frappone al raggiungimento di una meta, ma soprattutto lo scopo più o meno inconscio di uno smodato desiderio: quello di misurarsi con un mondo minerale, spesse volte ostile, immersi comunque in un ambiente capace di tirar fuori dal profondo sensazioni ed emozioni che si pensavano definitivamente sopite. Salire una via è quindi spesso il coronamento di un lungo sogno, disseminato di progetti e sforzi continui; così come, riuscire in un ascensione è soprattutto abbattere una barriera: quel blocco psicologico che ingigantisce con il crescere degli sforzi e dei tentativi, regalando alla montagna quell’aura di inviolabilità, che và ben al di là dell’appicco roccioso che ci sbarra il passo.

 

E` con uno zaino leggero sulle spalle, ma con un peso più gravoso nel cuore, che nel marzo del ‘95 mi apprestavo a superare questa barriera; a sfatare quel mito di inaccessibilità che la Parete Nord rappresentava per me da troppo tempo. Sentivo che era giunto il momento; l’allenamento era buono, le condizioni della montagna anche, volevo ancora solo una giornata luminosa, di quelle che altrove fanno la gioia degli “amanti della neve”. Io mi apprestavo invece ad “entrare” in questa parete cupa e fredda, dove la luce accarezza appena le punte più slanciate dei torrioni e le crestine nevose più aeree. Alcune ricognizioni avevano messo in evidenza la fattibilità di un progetto: la ripetizione della Diretta all’Arco; una via aperta nel 1987, la prima ad affrontare d’inverno le incognite di questo settore. Le mie cognizioni sulla via si limitavano al tracciato di salita, che per lungo tempo avevo studiato, ma il resto, era tutto un punto interrogativo; i primi salitori non avevano lasciato una relazione dettagliata. Sapevo comunque che l’attacco originario rappresentava la chiave della salita: alte difficoltà su terreno misto precludevano (a me) la possibilità di un tentativo solitario. L’unica possibilità era offerta da una variante, che porta subito al di sopra del bellissimo arco naturale, dal quale prende il nome la via.

 

La marcia nella neve del bosco, aiuta a tenere occupata la mente e ad allontanare le preoccupazioni; il bosco è silenzioso, come sospeso. Ultimi preparativi alla base della parete, dove lascio gran parte del bagaglio; la giornata è bella e il tempo non dovrebbe fare scherzi. Ancora una sgroppata su per i ripidi pendii alla base del Terrazzone e ci siamo, imbocco il canale della variante che con modesta pendenza, non presenta problemi di sorta. Su un’esile crestina nevosa che guarda nel colatoio principale della via, sento tornare in me l’inquietudine, più forte che mai. E` il momento decisivo: entrare nel budello e proseguire nella salita o tornare indietro e far finta di niente?! Mentre cerco una buona fessura per un chiodo, nella testa si accavallano pensieri, emozioni, ansie; ma la giornata è radiosa e questo momento lo aspettavo da anni. Mai l’emozione per una decisione era stata in precedenza, così intensa. Calarmi sul fondo del colatoio, vuol dire precludermi un’eventuale ritirata; una volta dentro  una via di fuga sarebbe veramente molto problematica. La sofferta decisione, creerà  la tensione che accompagnerà tutta la salita, rivelatasi poi tecnicamente poco difficile. L’apprensione si scioglierà pian piano, in ebbrezza prima e soddisfazione poi, solo in vista della cresta sommitale ingombra di cornici baciate dal sole. L’impressione intensa era quella di salire verso la luce da profondità insondabili.

 

Questo sentimento non è più svanito. Oggi, guardando la cupa bastionata rocciosa, specie nelle terse giornate invernali, quando i toni freddi della parete in  ombra esaltano il fascino cristallizzato di questo ambiente severo, io so che è possibile....; è possibile salire, entrare in questo mondo ostile e in punta di piedi, col fiato sospeso, aggirarsi nei suoi meandri. Non importa se i tentativi siano coronati da successo o meno, è semplicemente fantastico essere qui! In quell’occasione avevo, prima di ogni altra cosa, rimosso quel blocco psicologico che sempre mi coglieva, quando consideravo questo settore della montagna in tutta la sua imponenza. L’inverno seguente, in un alternarsi di stati d’animo, diradati i timori e le preoccupazioni, sono  tornato. Lo Spalto della X è il limite più occidentale della Parete Nord vera e propria; due vie tracciate a metà degli anni ‘80 ne risalgono con grande intuizione e logica, i salti rocciosi inferiori e i vasti pendii ghiacciati superiori. Dopo oltre dieci anni non erano state ancora  ripetute.

 

Anche nei momenti di maggiore determinazione, le ascensioni solitarie richiedono psicologicamente una prova severa, almeno per quanto riguarda i momenti che immediatamente precedono l’azione. Poi, una volta su, l’avvicendarsi delle situazioni da lungo tempo sperimentate, dissipano in un baleno tutti i pensieri che a valle appesantiscono l’animo. L’impegno imprescindibile e l’estrema concentrazione, proiettano la mente in una dimensione al di fuori del tempo e riducono lo spazio percepito alla porzione di parete che si ha davanti. Tutta l’attività cerebrale si trasferisce in pochi, precisi movimenti del corpo, ripetuti infinite volte, in maniera  costante. Visto dall’esterno, un alpinista che sale solitario, potrebbe apparire come una persona incalzata da presso da nemici invisibili. Rari gli istanti di distensione e contemplazione.

La Via dei Cinque, tra quelle percorse in questo settore, è quella che meglio di altre offre generosi scorci fantastici sulle ripide balze della parete. Il Braccio Dx della X invece, in basso chiuso e tortuoso, con i suoi budelli di roccia sembra ricordare in ogni momento i notevoli pericoli oggettivi che incombono; molto presto la salita diventa una corsa per sfuggire alle insidie della trappola in cui si è avuto la disavventura di cacciarsi. Uscire da questi itinerari, a ragione genera sempre un misto di sollievo ed euforia, soddisfazione e vuoto allo stesso tempo.

 

Le ultime nate

Sembra incredibile, ma le linee tracciate sulla parete con gli occhi e con la mente, con il passare del tempo diventano un vero e proprio incubo. Un’ossessione che si placa solo salendo; provando e riprovando. Ma quando si torna indietro da questa schermaglia, non c’è rancore nell’animo; la sfida è dura, la montagna è agguerrita. Presto si tornerà di nuovo. Con questo stillicidio di attese e tentativi, i problemi ingigantiscono e senza la giusta determinazione, è impossibile reggere il confronto. Il rapporto tra le salite positive e i tentativi, su questa montagna sono nell’ordine di 1 a 5; se si considera poi che in fondo le giornate utili, per innumerevoli fattori, durante l’inverno si riducono ad un pugno, si capirà allora quanto grande possa essere la gioia dell’alpinista per aver portato a compimento la salita e, allo stesso tempo, quanto lavorio mentale e fisico si celano dietro di essa.

 

Nel marzo del ‘95, quando ci apprestavamo a raggiungere la base delle rocce sullo Spalto della X, in noi c’era determinazione. Volevamo riuscire! Dopo aver a lungo scorrazzato sulla montagna e dopo la bellissima prima invernale sulla Cresta Nord di Monte Canale, quel sottile nastro di ghiaccio che segna sulla parete il segmento sinistro della grande X, era stato meditato a lungo. I primi salitori dello spalto, si erano ben guardati dall’affrontare questo problema, dirottando sul più facile segmento destro. Ma la linea di salita era una delle più logiche, evidenti ed appetibili della parete, per non essere almeno tentata. Una giornata di sforzi generosi, tenendo a freno dubbi e  incertezze, ha dato origine alla Via degli Irriducibili,  un tracciato non elegante, ma che rappresenta senz’altro la volontà di spingersi su un terreno più complesso e su difficoltà non banali.

 

Solo una cosa resta in questo settore a stuzzicare la mia curiosità: il segmento superiore destro della “X”, l’ultimo problema logico dello spalto, netto, evidentissimo. Poco sotto l’intersezione, dove convergono già due itinerari, un salto modesto di roccia mista a ghiaccio sbarra l’ingresso ad un canale che nella parte superiore s’impenna, facendosi strada tra speroncini e crestine rocciose.

Il 3 marzo del 1996 si è nelle migliori delle condizioni, io e la montagna. In compagnia di Giulio Scalzitti, estemporaneo ed eclettico compagno di cordata, non senza attimi di trepidazione, per il terreno che non permette assicurazioni, il salto è vinto e l’accesso libero. Il canale, senza difficoltà di rilievo, prosegue ora la sua corsa verso la cresta della montagna, stringendosi sempre più, tra quinte di roccia che regalano scorci magnifici sugli scivoli nevosi appena superati. Un ultimo tiro, sostenuto e delicato, ha ragione del pendio ghiacciato misto a rocce che lo chiude a monte. Tra turbini di nevischio e il grigiore delle nuvole che si addensano, ci sleghiamo su un terrazzone. Non è il caso di attardarsi; la discesa è breve ma il ghiaccio che ricopre le rocce è meglio affrontarlo con la fioca luce del giorno. “Supercanaleta”-questo il nome dato all’itinerario- è una bella via; non difficile se nelle giuste condizioni. Oggi risulta il canalino più lungo scovato sulla montagna.

La salita di questi itinerari in inverno si accavalla a nuovi progetti, ma quest’esplorazione certamente non svilisce il senso della ripetizione di vie già percorse sulla montagna. Agli inizi del 1997, dopo le grandi nevicate, il tempo rimane meravigliosamente stabile per qualche settimana. Tra la fine di febbraio e gli inizi di marzo, in due splendide giornate fredde ma terse, ho l’opportunità e la fortuna di percorrere ancora in solitaria due delle creste di misto più belle del Sirente: lo Sperone Centrale della Neviera e lo Sperone di Mezzo. 

 

Giancarlo Guzzardi

pubblicato su La Rivista C.A.I. n. 12 novembre/dicembre 1998

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