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Avatar, perchè sono qui

 

L’auto arranca con difficoltà sui tornanti, la strada è viscida e gelata. Alla luce dei fari tutto brilla di cristalli di neve, ma intorno le ombre si rincorrono come fantasmi. D’improvviso, ad una svolta della strada, la montagna. Se ne intravedono i contorni, si indovina la mola ancora avvolta dalle tenebre, si distingue appena il biancheggiare della neve, la bava fine dei canalini che serpeggiano verso l’alto tra speroni di roccia, cenge e terrazzini come bianchi fazzoletti e in alto la sagoma minacciosa delle cornici. E’ un altro mondo lassù, in un labirinto minerale dove la natura gioca indisturbata, nel silenzio. Ancora una volta è la nostra méta.

 

Fa un freddo cane, a -10° indossare gli scarponi, le ghette, stringere le cinghie dei ramponi è un sacrificio che costa subito la perdita di sensibilità nelle mani, mentre l’alito si condensa in perle di vetro sulla barba. Fare i primi passi è una liberazione. Un’ascensione invernale comporta un grosso impegno complessivo; alle difficoltà tecniche, si uniscono altri rilevanti fattori quali un lungo avvicinamento nella neve, il peso per il volume maggiore di equipaggiamento, l’orientamento spesso difficile, la meteo mai sicura e infine la discesa, a volte lunga e complessa. Quando l’ascensione si svolge in zone isolate, tali condizioni rivestono un carattere proibitivo e rendono la montagna inavvicinabile e pericolosa.

 

Una marcia estenuante nella neve alta e crostosa ci porta fuori dal bosco, sui pendii sottostanti la parete. L’itinerario è là, disegnato in una serie di goulotte che attraversano salti rocciosi a destra del Tempio, sale su esili terrazzini nevosi, per perdersi poi in un filo ghiacciato nascosto. Scartato a priori un bivacco gelido, abbiamo optato per una soluzione in giornata, che pone comunque il rischio di uscire col buio o dover rinunciare, effettuando una discesa forse ancora più complessa. Il rintocco metallico del primo chiodo nella roccia rompe il silenzio ovattato; a oriente il cielo è chiaro, ma nella valle ancora regna il buio ed aleggia una leggera foschia. Lassù in alto i primi raggi del sole, bellissimi, lambiscono la punta di pinnacoli e crestine nevose. Quei raggi oggi non ci scalderanno e l’uscita da qui appare maledettamente lontana. In posizione d’attesa fa molto freddo; la corda scorre lenta ma continua, le mani sono per ora al caldo nelle muffole. Sposto lo sguardo verso valle, ad abbracciare un paesaggio che si accende di una luce che avanza pian piano e lambisce colline, strade, paesi, campi, rivestendoli di colori caldi e brillanti.

 

-“Vienii!”- Il grido improvviso e rauco di Alfredo suona irreale nell’aria, risvegliandomi dal torpore. Un chiodo non vuol saperne di venir via, carico lo zaino ed eccomi arrancare sui primi metri, infreddolito e svogliato. Inizio a carburare pian piano e alla fine del tiro arrivo alla sosta ansimando. Dopo il traverso sul terrazzo nevosa tocca a me. Il canale si chiude in una strozzatura rocciosa, troppa poca neve nel fondo che lascia scoperte chiazze di ghiaccio di fusione e roccia. Mi apro in spaccata con le punte dei ramponi che graffiano sulla roccia, sfilo le muffole e cerco di piazzare una protezione indispensabile. Il sudore, il silenzio, l’affanno nello sforzo, sono le uniche cose che mi circondano chiudendomi in una bolla trasparente che mi separa dalla realtà. Il tempo vola indifferente; per qualche ora ci impegniamo sui tiri che si riveleranno quelli chiave della salita, una lunga e ripidissima goulotte, la sola che permette di accedere ad un’aerea forcella, oltre la quale le difficoltà diminuiscono e la salita può procedere più spedita. Non c’è soluzione di continuità nell’alternarsi al comando e parte della parete resta sotto di noi, con il passare del tempo che scorre con una scansione tutta sua, insieme a vari tiri di corda, di cui qualcuno delicato a causa di passaggi su misto. E’ la regola dell’arrampicata sulle montagne appenniniche, a causa della loro morfologia complessa e al terreno mutevole. Nel dedalo di speroni rocciosi raccordati da canali grandi e piccoli e creste nevose incise fortemente da salti a formare punte e torrioni isolati, un misto di tecnica, intuizione, esperienza, è d’obbligo per risolvere i problemi che man mano la salita presenta.

 

Intanto recupero Alfredo. Da questa posizione non lo vedo, coperto com’è da una costola rocciosa, ma lo sento salire dal tintinnare della ferraglia, mentre sfila via i rinvii che spesse volte vengono via troppo facilmente. Nessuna sorpresa, in questo tipo di salite bisogna essere preparati a tutto, anche ad assicurarsi su un ramoscello, come a piantare la becca sulla dura terra; fa’ parte del gioco. Un errore di valutazione ci porta però fuori percorso, facendoci perdere del tempo prezioso. Una breve doppia fino ad un intaglio tra una specie di avancorpo roccioso e la parete, poi un ripido traverso per prendere un canalino che si vede scomparire verso l’alto, dietro quinte di roccia che sostengono il colletto del Tempio. Fortunatamente abbiamo con noi un discreto numero di chiodi da roccia, perché quelli da ghiaccio pendono inutilizzati dalla cintura. Non contiamo più i tiri di corda che si susseguono uno dopo l’altro e che, per la conformazione della parete, spesso necessita accorciarne la lunghezza. Quando la stanchezza comincia a farsi sentire, una sosta provvidenziale su un plateau nevoso è un momentaneo sollievo per riposare le gambe, per mandare giù un po’ di calorie. La gola secca e irritata cerca solo liquidi, purtroppo il tè bollente della mattina tintinna ora in piccoli ghiaccioli dentro la borraccia. Stare fermi all’ombra gela il sudore addosso in modo davvero spiacevole.

 

Prima di riprendere la salita guardo verso l’alto: la parete si apre in ampi anfiteatri, comincia ad appoggiarsi fino ad aprirsi in pendii nevosi sotto la cresta sommitale. In questa zona c’è una neve splendida da ramponare, non ghiacciata, ma compressa, resa dura dall’azione delle slavine, che qui sono tutt’altro che rare. E’ un piacere procedere in un susseguirsi di canali con inclinazioni moderate, che consentono di assaporare appieno la bellezza dell’arrampicata. Decidiamo di slegarci, ma il rischio di un errore è sempre presente: partire su questi scivoli è un rischio da non sottovalutare; d'altronde il più delle volte le soste non sono molto affidabili o ci si assicura con un bloccante all’imbrago. Su questo terreno si perdono tempo ed energie nel ripulire la roccia coperta da neve o ghiaccio, senza avere la fortuna di trovare una fessura utilizzabile; mentre alla roccia rotta può fare a volte da contraltare quella molto solida, lisciata dalle intemperie, dove le poche fessure possono rivelarsi cieche. Evitiamo alcuni risalti che si parano innanzi, aggirandoli in un modo o nell’altro. Ormai vicina la cresta orlata di cornici ricamate di luce si staglia nitida sopra di noi, in un contrasto incredibile con l’azzurro del cielo che sfuma pian piano verso un color malva acceso. Il sole gioca di sbieco su grandi cornici sospese, le nervature rocciose nella luce calda sembrano pulsare di vita, spettacolo affascinante per chi sale da un versante esposto all’ombra e al gelo. Sui pendii di neve ventata spaziamo senza via obbligata, salendo di conserva e puntando ad un piccolo dorso nevoso che adduce in cresta, spezzando la continuità delle cornici. L’ultimo tiro ancora in sicura per superare il muro di neve verticale, con gli attrezzi solidamente ancorati sulla cresta pianeggiante e piena di luce ed il corpo penzolante nell’ombra bluastra. Abbagliato dal sole, sfinito da questo ultimo sforzo richiesto ai muscoli, per un istante mi sento come svuotato da ogni cosa, ma comprendo distintamente tutte le ragioni per cui mi trovo in questo luogo e perché per tanti anni ho continuato a salire questa montagna.

 

Mentre districhiamo il garbuglio di spire di corda e sistemiamo il materiale che penzola disordinato, ci rendiamo conto che quei raggi di sole sono anche gli ultimi, obliqui, infuocati, a colorare di arancione la neve. Giù nella valle già si addensano le ombre proiettate dal profilo dei monti. Abbiamo un’ora di luce, e nel languore lasciato dalla stanchezza e l’appagamento per questa fortunata salita, non sappiamo se godere ancora di questo momento o affrettarci sulla via del ritorno. Nella corsa per raggiungere l’imbocco del lungo canalone che ci porterà d’infilata nel bosco, le gambe sembrano ritrovare una rinnovata energia. Qualche capitombolo nella neve improvvisamente troppo dura o cedevole, corriamo incontro agli alberi e alle ombre. Nel bosco è subito notte e con essa l’aria gelida che soffia dai larghi impluvi della montagna, prende a condensare in nebbiolina i nostri respiri.

 

Giancarlo Guzzardi

scritto inedito

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