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La magia termina a valle

 

No, non è un’impresa. Salire una via alpinistica in Appennino non può essere un avvenimento eclatante né raro. Per cercare e trovare imprese e alpinisti degni di nota, occorre cercare avvenimenti in altri luoghi, ad altre latitudini. Semmai, la bellezza da celebrare restano gli angoli di montagna d’Appennino, che fanno da scorcio a volte ad un alpinismo silenzioso, appannaggio di poche cordate controtendenza. Un alpinismo di ricerca, che trova i suoi giorni grandi solo nell’intimo di chi, in contrasto con la globalizzazione, accarezza i suoi momenti fatti sicuramente di sacrificio, di fatica, di estenuanti tentativi, di rinunce e a volte di “successi”. L’appagamento è solo interiore, con o senza una salita portata a termine. La magia resta quella di mettere la propria persona di fronte alla bellezza rude e alla severità imparziale della montagna, sondare quegli attimi in cui ogni cosa tende verso un limite estremo e la personalità esplora altre dimensioni di essere e una differente scansione del tempo. Un mondo di una bellezza straordinaria, fatta di forme mutevoli, tagli di luce che danno e tolgono la vita a rocce, a ghiacci, a nevi. Ogni passo, in questo ambiente, è una piccola emozione in un ambiente magico capace di stregare, con le sue rugosità, i suoi merletti, i suoi cristalli, tra pinnacoli, immacolati pendii, stretti budelli, che sono le viscere della montagna. Varcare questi confini, vuol dire conoscere un piccolo angolo irripetibile, dove il lato selvaggio della natura può essere solo attraversato con il fiato sospeso ed in silenzio. Nessun clamore né luci della ribalta. La magia termina a valle, quando facciamo ritorno nei nostri spazi urbani e la montagna torna a chiudersi nei suoi contorni nebbiosi, sfumati, come un regno difficile da penetrare, conoscere, comprendere.

 

Salire una via alpinistica in Appennino, può essere anche questo. Certamente, è un interagire di grande passione e brucianti pulsioni, a volte inspiegabili ad altri. La “conoscenza”, nella sua più ampia accezione del termine, non è mai discinta dal “sacrificio”, dall’accettazione dell’ignoto, dall’umiltà d’animo. L’Alpinismo, non fa eccezione in questo; attività scaturita direttamente dallo spirito inquieto dei primi pionieri, secoli fa. Sicuramente, una dimensione molto lontana dalla globalizzazione di oggi.

 

Ho smesso da qualche anno di raccontare sulla carta stampata i miei momenti di alpinismo e di un Appennino così come io l’ho vissuto, avvicinato, scoperto pian piano, accarezzato, fino a farne uno dei tesori più grandi da conservare dentro. Mai raccontabile fino in fondo.La Globalizzazione da poco più di un decennio dell’universo montagna mi ha sorpreso, sconcertato, forse amareggiato, con le sue cronache sempre più infarcite di alpinismo telematico, in cui la fretta di “arrivare” e l’apparire ad ogni costo, giocano oggi le loro carte sui social network, nei forum, nella rete intera; parallelamente ad una tendenza a fare di quest’attività un’aspirazione per tutti a portata di mano, che ormai ha perso per strada ogni spirito di iniziativa, di ricerca, di lenta conoscenza, delegando ai telefonini, alle webcam, ai satelliti, al computer, alla tecnologia ad ogni costo, ogni decisione, ogni progetto, ogni volontà.

 

Fin nei minimi particolari, oggi siamo in grado di conoscere virtualmente ogni sfaccettatura della montagna, l’umore e i capricci di chi sale, in una babele di testi ed immagini ridondanti in cui si perde ogni senso del “chi”, “cosa”, “perché”. Blog e portali raccontano in tempo reale i momenti quotidiani e gli aneddoti di chi si appresta a salire le grandi montagne della Terra. Nel piccolo, anche il nostro Appennino mostra le sue cronache stucchevoli, in cui su un pendio a 40 gradi, spesso si confondono alpinisti navigati, escursionisti evoluti e gitanti della domenica. Al grande pubblico si cede il lato morboso: gli incidenti, le vittime, i soccorsi, la montagna ancora una volta “assassina”. La webcam ha restituito un cielo azzurro ed un manto di neve candida, l’esperto di meteorologia ha sciorinato il suo ultimo bollettino con temperatura della neve in superficie, il grado di coesione del manto nevoso, l’ora puntuale in cui le nuvole copriranno il sole e la velocità del vento. Nello zaino un paio di ramponi e picche di ultima generazione, fanno bella mostra di sé. Non ha importanza se nei progetti ci sia solo un canalone al Terminillo o la Direttissima di Monte Amaro. Una montagna a colpo sicuro e senza inconvenienti.

 

La virtualità si ciba della sua stessa natura inconsistente; ed in un’epoca in cui un Grande Fratello che sfugge alla nostra comprensione e può carpire nei minimi dettagli ogni fatto ed ogni momento della nostra vita privata, se non sei sul WEB non sei nessuno, se non hai un account Face Book sei un asociale, se non condividi mal di pancia e nevrosi in un forum, non hai di che motivare le tue argomentazioni. E tra un Club Alpino in difficoltà a stare al passo coi tempi e il rifiuto generalizzato ad iniziare dall’A-B-C delle cose con pazienza ed umiltà, la cosa più sconcertante del nostro panorama montagna è la tendenza a dimenticare la storia e chi ci ha preceduti. Una tendenza dominante questa, in ogni sfera della vita sociale, in cui solo 20 anni trascorsi diventano ere geologiche ed i nostri nonni personaggi anacronistici che non siamo più in grado di comprendere.

 

E’ qualche anno ormai in cui, pensando all’alpinismo cyber-tecnologico e riflettendo sulle tendenze che fanno della montagna e dell’alpinismo l’ennesima attività in cui imbarcarsi con la promessa di un “pacchetto tutto compreso”, mi vengono in mente personaggi come Riccardo Cassin, uno dei grandi, capace di partire per misurarsi con la Walker, solo con una cartolina in tasca di quella tremenda montagna, e nulla più. Viceversa, guardando indietro ci si rende conto davvero della nostra reale “statura”, ed allora magari forse sarà possibile ridimensionare o sfatare tanti luoghi comuni di chi è abituato ormai a ragionare solo in termini di sigle incomprensibili, termini rigorosamente inglesi, tabelle, gradazioni e a ridurre la montagna e l’alpinismo ad una grande parete indoor e ad un’attività snaturata da ogni elemento di carattere emozionale, concettuale, umano. La montagna come ennesima kermesse. Questo non contribuisce di certo ad elevare di alcun valor né l’Alpinista, tantomeno l’Uomo.

 

Ho conosciuto la montagna quando il pile era ancora di là da venire ed il goretex un tessuto per pochi eletti, la becca della piccozza aveva una regolare curva, all’avanguardia per i suoi tempi; guai a perdersi o a far tardi, niente telefono cellulare, neanche si concepiva che nel bel mezzo di una parete si potesse ordinare una generosa porzione di lasagne da “Gino, vino e cucina”. La relazione di una via si leggeva solo in linea di principio, ma nessuno si lamentava più di tanto se una descrizione approssimativa ti infognava in un mare di guai. Il mio primo casco d’arrampicata è stato un aggeggio derivato da una modifica di un normale casco da cantiere, quello giallo per intenderci. Tutto ciò non è concepibile oggi, né auspicabile, però l’alpinismo in quegli anni aveva un sapore diverso, più umano. Ed erano solo i primi anni ’80.

 

Non si può togliere all’alpinismo la speranza di vagheggiare, accarezzare in silenzio nell’intimo i propri sogni, coltivare nel tempo una conoscenza ed un approccio umile alla montagna e gioire così, volta per volta, di un nuovo angolo scoperto ed un nuovo momento emozionante vissuto. E’ la fretta del nostro tempo, che risucchia ogni personalità e diversità, in un ingranaggio in cui gli uomini sono ormai uno username e il nostro quotidiano una password troppo facilmente violabile. Uomini e Alpinisti, tutti senza una identità, ma soprattutto senza una Storia.L’universo montagna globalizzato.

 

Giancarlo Guzzardi

pubblicato su APPENNINICO.TV - gennaio 2012

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