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Prima ripetizione

 

La partenza questa mattina è prevista alle 4:30, suona la sveglia alle 4:15 e ho sonno, molto sonno. Ho dormito poco, per via della tensione e per via del dormiveglia di mio figlio che ha poco più di dieci mesi. Per quasi tutta la notte, ma anche nei giorni precedenti pensavo di essere lì, in piena parete nord e di avere ogni volta qualche problema diverso: in un sogno (leggasi incubo) ero costretto con i miei compagni a bivaccare senza sacco a pelo né tenda a pochi metri dalla cima, in un altro avevo perso la piccozza e rotto un rampone, in un altro ancora venivamo presi in pieno da una slavina.

 

I sogni per fortuna non sono mai premonitori della realtà, ma sta di fatto che ogni volta che mi accingo a fare qualcosa di più "complicato" o "difficile" del normale scatta in me questo meccanismo di autodifesa inconscio: sogni, incubi, paure, incertezze, domande senza risposta e situazioni senza soluzioni. Tutto questo mi passa continuamente alla testa nei momenti prima della salita, ma alla fine mi ci sono abituato e so che serve a farmi concentrare.

 

Scendo le scale, carico la macchina e richiamo alla mente almeno tre volte se ho preso tutto: corda ramponi, almeno dieci chiodi, piccozza, cordini, casco, imbrago, tre paia di guanti, cappello, giacca, ghette, rullino e macchina fotografica. C'è tutto, esco fuori che c'è già Rino che mi aspetta. Mezzora dopo anche Marco Sbaraglia si unisce a noi. Come al solito in macchina inizio a parlare, e parlare, divento quasi logorroico, ma so che mi serve per scaricare la tensione. il cielo sembra ancora coperto ma il Sirente è lontano e non mi preoccupo, la temperatura è perfetta e il vento assente, tutto sembra procedere come da previsione.

 

Alle 6:15 arriviamo ai prati del Sirente, con il termometro che segna -4,5° C. Usciamo fuori e ci prepariamo, io prendo subito il binocolo, osservo la parete e commento come questa mi faccia paura, qualche banco di nebbia sfiora le zone più orientali, ma il morale è alto e la giornata splendida. Di gran passo superiamo il bosco e meno di due ore dopo siamo già alla selletta dove dovrebbe esere l'attacco della via. In un attimo scende la nebbia, non era prevista e non capisco più niente, prendo a osservare velocemente la fotocopia che ho in tasca della zona bassa della parete prima che questa venga inghiottita completamente. Alzo gli occhi e cerco di trovare due grossi speroni sopra una cengia stretta e lunga ma nulla di tutto ciò. Aspettiamo dieci, quindici minuti, ma la nebbia non va via, anzi aumenta. Di solito quando sono sotto la parete tutti gli incubi spariscono, le paure e le incertezze solo un ricordo e anzi, sono felice e nello stesso tempo eccitato di essere lì, di non aver dato retta a quelle paure, di aver cocciutamente organizzato la scalata e l'ora della sveglia. 

 

Ma oggi non è così: quando non vedo, oltre alla vista, mi si annebbia anche il cervello. Poco dopo infatti, dico a Rino e Marco che vado a fare una piccola ricognizione, ma parto senza piccozza e senza corda! Che scemo che sono! Purtroppo me ne accorgo dopo aver superato una ventina di metri ripidi e ghiacciati dove sono stato costretto ad aiutarmi con i palmi delle mani per salire! Da lì sopra so che avrei difficoltà a scendere, spero di avere azzeccato e aspetto che uno squarcio mi faccia vedere e capire dove sono. Per un istante si apre uno spiraglio e capisco che non sono nel posto giusto ma grido ugualmente agli altri di salire su ...almeno penso, portano su le mie piccozze e la corda. Quando mi raggiungono ci leghiamo, ci prepariamo e, dopo aver fatto sosta su uno spuntone, comunico agli altri che ho deciso di partire, un pò a intuito, con lungo traverso verso sinistra, giusto per vedere cosa c'è al di là di una costoletta rocciosa. La supero e noto un ripido e ghiacciato colaltoio, continuo ancora fino a quando sento il grido di Marco che mi comunica che la corda è finita.

 

Mi raggiungono e riparto deciso ancora a traversare a sinistra fino ad arrivare su un alberello sotto una fascia rocciosa dove faccio di nuovo sosta ... continuo a non sapere dove sono, ma sono fiducioso perché per questi primi tiri di corda le conzizioni della neve e del ghiaccio sembrano ottime. Poi supero un ripido canale ghiacciato, giungo su un ripiano nevoso, ancora nebbia, ma sono deciso e continuo a salire, poco dopo vedo un chiodo! Che bello! Non sevre a niente lì dovìè piantato: perchè poco sopra c'è solo roccia compatta e liscia ma è una presenza! Siii, sono sulla via giusta!

 

Poco dopo uno squarcio nella nebbia e uno strepitoso panorama si apre ovunque! Attimi di pura poesia con una immensa parete di fronte, mentre a sinistra giganteggia la calotta bianca della Majella che spunta sopra un mare di nebbia. Mi sento di colpo bene e in forma smagliante! Osservo di nuovo la foto e capisco che il colatoio si trova poco più a destra. Arrivano anche Rino e Marco e, come me, anche loro ammirano stupefatti il paesaggio. Poco dopo giungiamo sotto il ripido colatoio ghiacciato che rappresenta il tiro "chiave" della via, ovvero quello più difficile e quello che mi, e ci impegnerà, per quasi due ore e trenta e che quasi ci fa desistere e mollare. 

 

Dopo quel tiro io mi sento sfinito, Rino ha quasi pianto per il dolore da scongelamento delle mani, solo Marco sembra non aver "accusato" il colpo. Sono volontariamente sommario: raccontare la scalata, e tutte le sensazioni che mi sono e ci sono passate per la testa, renderebbe troppo lungo e "tecnico" questo racconto, magari una prossima volta. Per ora faccio un balzo in avanti di qualche ora per arrivare a pochi metri dalla cornice terminale, a pochi meri dalla fine della parete e, quindi, della via. Siamo tutti stanchi ma contenti. Dietro di noi lo stretto budelo di ghiaccio e neve superato, a destra e a sinistra, ripidi colatoi, torrioni e pendii nevosi, più giù il bosco, e ancora più giù, lontano si staglia l'ombra dell'immensa parete nord del Sirente.

 

Si capisce che fra un paio d'ore farà buio, ma siamo felici, un sogno si è realizzato, mentre sopra di noi ammiriamo un torrione ancora baciato dagli ultimi raggi del sole. Alle 16:30 sono anch'io colpito in pieno volto da quei raggi e grid: il soleee! Poco dopo tutti e tre siamo fuori e ci facciamo i complimenti a vicenda: a me toccano quelli tecnici, a Rino (chiamato anche il "muletto") quelli fisici, mentre a Marco quelli morali perchè solo più di un mese prima, giunto sotto questa parete - questa stessa parete- la sua mente fece click: quel luogo gli fece paura e non volle salire, costringendomi a tornare indietro.

 

Sia io che Rino pensiamo al giorno in cui leggemmo l'articolo di Giancarlo Guzzardi su questa via. Il suo nome è Antartica, una via di quasi 900 metri di sviluppo, con passi fino al quarto grado e pendenze fino a 75°, forse la sua più bella via. Era il 2004 e da allora, tra me e Rino parlare di "Antartica" era stato sempre e solo uno scherzo.

Stasera non è più così: 17 febbraio 2007, prima ripetizione Cristiano Iurisci, Rino Iubatti e Marco Sbaraglia.

 

Cristiano Iurisci

pubblicato su Ghiaccio d'Appennino - ottobre 2012

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