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Una nord per giorni duri

 

Il Sirente è una montagna bella, imponente, importante. Peccato sia alpinisticamente poco apprezzata e frequentata, nonostante la sua lunga parete nord est sembri proprio ricordi un “pezzo” di Dolomiti in pieno Abruzzo. In giro si dice che la roccia non sia buona. Seppur con talune eccezioni, purtroppo è vero. Ma il Sirente è troppo bello per non avere la curiosità, almeno una volta, di intrufolarsi fra le sue pieghe, i suoi innumerevoli torrioni e pinnacoli.

 

E d’inverno, poi? Uno spettacolo. Quasi venti chilometri di roccia, ghiaccio e neve che si elevano mediamente per cinquecento metri direttamente dal bosco. Ma gli alpinisti, almeno in inverno, lo frequentano? Molto poco, e sempre meno da quel periodo “d’oro” che furono gli anni ’80 e ’90, quando vi era ancora molto da fare con la sistematica esplorazione di molti canali e l’apertura di diversi itinerari, alcuni di indubbio valore alpinistico e ambientale. Itinerari che però pochi o addirittura nessuno ripete. Eppure non è che l’Appennino abbia così tante montagne e pareti da scalare con le potenzialità del Sirente. Le motivazioni di ciò, almeno per me, sono un mistero, considerando l’elevato numero di alpinisti che salgono sempre e solo sui medesimi itinerari del Gran Sasso, dei Sibillini o del Terminillo.

 

Tutto ciò si riflette sulla storia alpinistica del Sirente che è rimasto appannaggio di poco più di una manciata di persone, a volte “locali” de L’Aquila o Sulmona, e più raramente provenienti dalle più lontane Palestrina, Tivoli o Roma. Persone davvero innamorate di questa montagna che per anni hanno fatto un alpinismo invernale sottovoce e mai banale, con l’apertura di itinerari spesso sottovalutati e ignorati dai più. Poche le eccezioni, tra le quali spicca Massimo Marcheggiani, forte alpinista dei Castelli Romani. Più recentemente Giancarlo Guzzardi, di Sulmona, è stato l’unico a credere alle grandi possibilità di questa montagna, portando avanti fino al 2003 un‘intensa attività esplorativa, con l’apertura di itinerari tra i più ambiziosi e difficili del massiccio.

 

Tra gli innamorati del Sirente ci sono anch’io. Al principio scalavo solo con la fantasia, guardando foto, illustrazioni e curve di livello. Di una cosa però ero certo: che se un giorno ne fossi stato capace, avrei scalato quella parete. E’ ovvio che per un po’ ho continuato ad accarezzare quelle rocce solo con la mente: troppo grande pensavo, troppo pericolosa, troppo difficile. Più tardi, comperati gli sci, mi sono limitato ai classici Majore e Lupara, i due grandi canaloni che incidono la parete nord est del Sirente. Volevo ovviamente fare di più, ma le poche informazioni che ero riuscito a leggere su questa muraglia erano tutte abbastanza scoraggianti. Quasi sempre venivano descritti  itinerari con avvicinamenti mostruosi, pregni di commenti sul freddo intenso e sul costante pericolo di valanghe. Trovare qualcuno poi che mi introducesse al fantastico mondo del Sirente sembrava molto improbabile, mentre impossibile era convincere qualcuno: dovevo ancora farlo con me stesso.

 

         Via l’ansia da Nord

Nel 2005 arriva la svolta. Finalmente supero quella perenne ansia da “grande parete” e, in pieno inverno e con temperature prossime ai -15°, riesco a salire in compagnia di Rino Ritorno al sole, una via non difficile sulla destra orografica del Majore. Certo, non è l’itinerario che sognavo, la via non supera infatti la grande bastionata che va dalla vetta del Sirente a Punta Macerola, ma il tabù invernale è ormai rotto.

 

L’anno successivo attacco la mitica Via dell’Arco naturale. Ne esco però sconfitto e dolorante. Non mi accorgo di sbagliare l’attacco e, dopo aver scalato appena 50 metri, in due ore decido di mollare, è troppo difficile e non me la sento di continuare. A peggiorare le cose è un banale errore in corda doppia che mi fa battere la becca della piccozza sul volto e mi provoca una ferita. La conseguente insensibilità alla guancia e al labbro per oltre due settimane, unito al ricordo d quel primo tiro, davvero difficile, mi fanno abbandonare l’idea sia di un nuovo tentativo alla via che sull’intera parete.

 

Solo un mese dopo, dopo una chiacchierata con Giancarlo Guzzardi, comprendo l’errore: ho superato l’inviolato, almeno in inverno, attacco originale della via dell’Arco naturale. Questa scoperta mi rincuora non poco: dunque esisteva una variante, ed è nettamente più facile! La parete ora torna nei miei pensieri tanto che, a fine marzo, sono di nuovo sotto la muraglia di Punta Macerola. Insieme a Luca scalo Supercanaleta, una via di 700 metri che vince l’evidente canale sopra l’intaglio del braccio destro della grande X che caratterizza la parete.

 

         Antartica

L’inverno successivo inizia alla grande con la salita dell’Imbuto, una via temuta sia per le difficoltà del tiro chiave che per il pericolo delle frequenti scariche. Di classico e imperdibile rimangono da fare l’Arco naturale e Antartica. La scelta cade su quest’ultima, una via che è probabilmente il capolavoro di Guzzardi. La sua linea è logica e stupenda. La notte prima del tentativo praticamente non dormo per la tensione. Giunto sotto l’attacco, l’ansia si tramuta in adrenalina e tutto va per il verso giusto.

 

Il tiro chiave è davvero duro e quasi verticale; più in alto dei brevi salti di misto non banali rallentano l’andatura. Per contro l’ambiente è così bello che non mi pesa affatto restare immerso in quel mondo di guglie, gendarmi e torrioni. Alla luce del tramonto, appena usciti in cresta, abbraccio commosso i compagni d’avventura Rino e Marco: sono felice come un bambino, anche se so che ci aspetta una discesa notturna poco tranquilla.

 

Tra le due vie c’è un evidente diedro, ancora parzialmente inviolato, tentato da Guzzardi nel 1993. Sarà il mio chiodo fisso dell’inverno successivo, Con Nico effettuo due tentativi, entrambi naufragati circa a metà parete. Le alte difficoltà, le slavine e le brevi giornate invernali non mi permettono di chiudere la via in giornata, e di bivaccare no ne ho proprio voglia. In un successivo tentativo ripieghiamo direttamente sull’Arco naturale. Stavolta va tutto bene e indovino l’attacco giusto. La via è tra le più belle che abbia mai fatto. E quell’arco di roccia a metà parete è proprio una meraviglia della natura.

 

Sul Sirente c’è ancora molto da fare, specie nell’inesplorato e difficile settore di Antartica e l’Imbuto. Potrebbe essere l’ideale campo di battaglia delle nuove generazioni che sapranno scrivere altre importanti pagine di “appenninismo”. Un’attività che viene creduta, secondo me a torto, morta e sepolta da tempo.

 

Cristiano Iurisci

pubblicato sul Alp G. M., n. 41 aprile/marzo 2009

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